La prognosi dei pazienti con amiloidosi sistemica dipende dal tipo e dal grado di coinvolgimento degli organi interessati tra cui il cuore rappresenta quello determinante. Lasciata a se stessa la malattia, nelle sue varie forme (AL,AA etc..) tende a progredire fino a provocare il danno irreversibile degli organi colpiti. I fattori prognostici principali che influenzano il danno d’organo sono rappresentati dal tipo di amiloidosi e dall’età del paziente. Tra tutti, i pazienti con Amiloidosi AL, hanno una prognosi peggiore, con una mediana di sopravvivenza che può essere anche di pochi mesi se è presente una miocardiopatia restrittiva in fase sintomatica (1). I pazienti con amiloidosi AA hanno prognosi migliore con mediane di sopravvivenza che vanno dai 2 ai 4 anni in massima parte dipendenti dalla gravità della malattia infiammatoria concomitante. La prognosi migliore di questi pazienti dipende dalla rarità dell’interessamento cardiaco (2). Per i pazienti con forme eredofamilari da TTR mutata, la prognosi è influenzata dal tipo di mutazione sottostante che a sua volta condiziona l’età d’esordio e la presenza e il grado del coinvolgimento cardiaco ( 3). Le forme senili hanno esordio oltre i 60-65 anni, sono spesso pauci o asintomatiche e mostrano generalmente una lenta progressione verso lo scompenso cardiaco.
L’approccio terapeutico per tutte le forme di amiloidosi ha come obiettivo fondamentale la riduzione della concentrazione plasmatica del precursore di quel tipo specifico di amiloidosi (catene leggere delle Ig per le AL, SAA per le AA etc..) con l’intento di ridurre la conseguente formazione di fibrille da un lato e di favorirne i meccanismi di riassorbimento dall’altro. La riduzione della concentazione del precursore ridurrebbe anche la sua tossicità sugli organi colpiti con un miglioramento della loro funzione. Nelle amiloidosi AL lo scopo del trattamento è quello di ridurre, fino ad eradicare mediante chemioterapia, il clone plasmacellulare responsabile della produzione della catene leggera amiloidogenica. Il trapianto di midollo osseo, caratterizzato da elevati dosaggi di melphalan seguiti da trapianto di cellule staminali autologhe, è il trattamento probabilmente più efficace ma disponibile solo per un gruppo ben selezionato di pazienti che non supera il 20%. Nei centri con maggior esperienza, i risultati riportati in letteratura mostrano una risposta completa clonale ad un anno pari al 40% dei pazienti trattati con una sopravvivenza mediana di 7.5 anni (6). Tuttavia, questi risultati sono gravati da una mortalità relativa al trattamento pari a circa il 4%, soprattutto nei pazienti con coinvolgimento cardiaco. Per i molti pazienti che per l’interessamento multiorgano, età e basso performance status, non possono eseguire la terapia con cellule staminali, il trattamento di scelta è quello con desametazone ad alte dosi (40 mg die per 4 giorni ogni 4-6 settimane) associato a melphalan. Questo trattamento rappresenta oggi il gold-standard della terapia ed ha permesso di ottenere risposte rapide e durature, grazie anche alla riduzione dell’effetto tossico delle fibrille amiloidi sulle cellule degli organi infiltrati (7). Una recente variante di questa terapia è oggi rappresentata dall’associazione Ciclofosfamide, Bortezomib e Desametasone (8).
L’impiego degli inibitori del proteasoma, di cui il bortezomib è il capostipite, ha di fatto rivoluzionato il trattamento di questa patologia introducendo un nuovo strumento terapeutico che va direttamente a interferire con i processi intracellulari di metabolizzazione ed eliminazione delle “misfolded proteins” (ovvero delle proteine danneggiate) che sono alla base del processo di fibrillo genesi (cosiddetta “target-therapy”). Nei pazienti con ricaduta di malattia e/o refrattarietà alla prima linea di terapia, l’uso degli Immunomodulatori (IMIDS), quali la talidomide e le molecole derivate come la Lena e la Pomalidomide, in associazione con il desametazone (9) rappresentano una valida alternativa. Attualmente sono oggetto di studi clinici alcune terapie che prevedono il riassorbimento attivo dei depositi di amiloide mediante specifici anticorpi ed è sempre più probabile che le future terapie comprenderanno l’impiego di diverse molecole capaci di agire a differenti livelli del processo di fibrillogenesi (10)
Nell’amiloidosi secondaria o reattiva (AA) il trattamento fondamentale consiste nel buon controllo della malattia di base. Ogni trattamento che sopprima o riduca l’attività infiammatoria della malattia sottostante determina contemporaneamente una parallela riduzione dei livelli circolanti della proteina amiloidogenica SAA. In pazienti con artrite reumatoide, spondilite anchilosante, morbo di Crohn, la terapia con farmaci biologici antiTNF ha recentemente permesso di migliorare ulteriormente la prognosi, favorendo in alcuni casi la completa risoluzione della sindrome nefrosica presente. Nelle forme eredofamiliari da TTR, la più frequente causa di amiloidosi sistemica dopo la AL, il trapianto di fegato appare, almeno nelle forme iniziali, il trattamento di scelta, essendo la quasi totalità della transtiretina mutata, prodotta dal fegato. Il grado di coinvolgimento cardiaco è anche in questo caso l’ elemento fondamentale che condiziona la prognosi.
Infine per le Amiloidosi senili è fondamentale la terapia di supporto cercando di controllare in modo ottimale i meccanismi dello scompenso cardiaco associando, ove possibile, dei farmaci capaci di stabilizzare la molecola della transtiretina e dunque di rallentare il processo di fiblillogenesi e il conseguente danno miocardico, già utilizzati nelle forme di amiloidosi da TTR mutata. Tra questi i più usati sono il diflunisal, il cui uso tuttavia è limitato dalla presenza della fibrillazione atriale particolarmente comune in questi pazienti, la doxiciclina associata all’acido Taurodesossicolico e l’ epigallocatechingallato (EPCG), potente antiossidante.